venerdì 7 settembre 2007

Raccontare il lavoro

Due giorni ad Ischia per parlare di un tema centrale per la vita di tante e di tanti. Lavoro negato, desiderato, precario, stabile, intellettuale, esecutivo. Lavoro di donne prima di tutto , “lavoro privato”, “lavoro pubblico”. Tanti racconti di vita messi in comunicazione tra loro e con l’intento di stimolare la politica (saranno presenti assessori regionali, ministri, esperti, sindacalisti) ad accentuare quello che le dovrebbe essere essenziale: la capacità di ascolto. Parleranno le donne della cooperativa “Un pomeriggio di primavera” appena costituitasi a Barra. Parlerà l’operaia di un setificio di San Leucio. Parlerà una grande imprenditrice a capo di una holding. Parlerà una giovane precaria. Una politica racconterà il suo “strano lavoro”. Parleranno non in rappresentanza di categorie o in nome di altri, racconteranno “solo” l’esperienza soggettiva così come l’hanno elaborata, così come la pensano. Ed il “racconto di sè” renderà possibile il confronto ed approdi comuni. Non mancheranno i contributi sapienti dell’Università Bocconi di Milano e della Federico II di Napoli. Saranno contributi nei quali le “studiose” non racconteranno astratti resoconti, ma partiranno, come si diceva una volta e come continua ad essere efficace, da sè, dalla loro esperienza. Su questo, che è un’altra tappa dell’itinerario di “Civiltà delle donne”, ci piacerebbe che tutte e tutti ci aiutaste a riflettere e ad agire.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

La precarietà e gli affetti - i genitori
Quando hai vent'anni i genitori ti insegnano il valore dello
studio, dell'impegno personale, del dovere. Oggi che ne hai
quaranta ti guardano perplessi quando senza coinvolgerli
troppo per non impensierirli oltremodo gli racconti del tuo
passare da un lavoro all'altro, spesso con delle lunghe
pause tra i diversi incarichi. Con i compensi che arrivano
molti mesi dopo la fine dell'mpegno e i soldi che sono già
tutti spesi. Avevano pensato e tu con loro, che lo studio ti
avrebbe garantito più sicurezze rispetto alla fatica che
avevano fatto loro per comprare casa e arrivare a fine mese.
Oggi sono pensionati e ti danno una mano a pagare le
bollette o la polizza integrativa quando il tuo conto segna
rosso. Lo fanno volentieri, ma chiedere ancora costa. Ogni
volta speri che sia l'ultima. E speri di poterti sentire
presto al posto giusto con un lavoro retribuito
puntualmente. E il tuo sconfinato affetto per loro pieno di
riconoscenza, svincolato dal bisogno e dall'aiuto. Un
affetto tra adulti che bastano a se stessi.

la precarietà e gli affetti - il matrimonio
Insieme. Per scelta che si fa ogni giorno scommessa.
Cresciuti in un fluire di certezze che tendevano verso
l'italia media. Il lavoro, uno per tutta la vita, la scuola,
le vacanze al mare, il natale con i nonni. Facciamo parte di
una generazione sperimentale: che non ha fatto in tempo a
rientrare nel terno del posto fisso; perchè a vent'anni
pensi che basti studiare e seguire il tuo sogno. Era il
tempo in cui la raccomandazione era un sistema normale per
ritagliarsi un ruolo lavorativo e sistemarsi. Poi con
Tangentopoli sembrava doversi aprire una stagione nuova,
scandita dal merito. Un'illusione. Di padre in figlio, di
amico in amico, da potente a introdotto, la segnalazione è
diventata solo più carsica, sotterranea. Con un sistema di
'regali' in cui sono lievitate le percentuali perchè è
aumentato il rischio. E hanno smesso anche di indire
concorsi per ruoli pubblici.
Fino ad un certo punto pensi che il matrimonio sia un giorno
che arriva come l'ultima tessera di un puzzle: occupazione
certa per due; una casa con spazi rinnovati e arredata per
due; e due che aspirano a moltiplicarsi almeno per due.
Poi senza dirselo esplicitamente scommetti e punti tutto
sulla speranza: ti sposi anche se il lavoro non è quello
sperato, la casa non è quella sognata e la consapevolezza
che i figli hanno diritto ad avere genitori se non giovani
almeno entusiasti. La prima bambina è una scelta di
coraggio, il fratello un'incoscienza ragionata.Per amore. Di
due che si è moltiplicato per due.

Anonimo ha detto...

....lo so che non si inizia mai una lettera con un puntini sospensivi....ma è proprio così che mi sento se mi relaziono al lavoro. Si, mi sento in sospensione. Mi piacerebbe poter condividere con voi la mia esperienza di lavoro ma, c'è sempre un ma, io un lavoro ancora non ce l'ho.
Ho 30 anni, una laurea umanistica che non serve a nulla ed un master altrettanto inutile...passo da uno stage non retribuito all'altro e vengo fatta fuori dai concorsi nella mia città perchè non sono troppo figlia di... Intendiamoci un padre ce l'ho e fino a 2 anni fa avevo anche la migliore delle madri, ma i miei sono gente normale senza troppe conoscenze o per lo meno senza le conoscenze che ad Avellino contano tanto. Che dire, vivo costantemene nella precarietà, non posso programmare nulla, non vedo al di la di oggi e ho imparato che il futuro non esiste per tutti. Sono disgustata dalla poitica e dai politici....ma forse sto andando fuori tema. A vent'anni credevo che il lavoro fosse un diritto oltre che un dovere, oggi credo che sia la linea di confine tra chi può decidere della propria vita e chi no. Io non ho il diritto di decidere cosa fare....non posso neanche decidere di prendere un caffè al bar, mi sento soffocare dalla mancanza di lavoro ed evito di uscire per non sentirmi chiedere "di cosa ti occupi?".Guardandomi intorno vedo amiche ed amici nella mia stessa condizione e invece di pensare "mal comune mezzo gaudio" la mia rabbia verso le istituzioni aumenta.E' bello fare convegni e dissertazioni sul lavoro facendo parlare chi un lavoro ce l'ha, mi chiedo cosa succederebbe se si desse voce a ci invece tutte le mattine si sveglia pensando che dovrà trascorrere un'altra giornata senza fare nulla.
Emanuela

sv ha detto...

Ho visto la foto dell’invito al convegno: dovreste metterla anche sul blog. Ne parlo perché ho una foto molto simile credo del 77 che ritrae me, Maria e Angela in un bellissimo cortile della casa di via Tasso in cui Angela ed io abitavamo, intorno a un tavolino e a una macchina da scrivere (lettera 22) intente alla correzione di una traduzione dall’inglese all’italiano di un libro portoghese sui poeti delle Asturie di cui non ricordo altro. Lavoravamo tutte per la Liguori Editore, in un rapporto di amicizia-lavoro pressocchè totalizzante. Lavoravamo part-time, con regolare contratto e una paga abbastanza soddisfacente per quei tempi e per le nostre esigenze di giovani universitarie. Quello che ricordo vivamente è che nel lavoro ci mettevamo di tutto, dall’impegno sproporzionato, alle infinite discussioni, dalle risate al normale fluire della nostra relazione di amicizia, fatta di parole, problemi, regali, acuisti, litigi ecc. Ci pagavano per il fatto di esistere e noi, in cambio, nella nostra esistenza e nella nostra amicizia ci avevamo messo i libri, le inserzioni pubblicitarie, le quarte di copertina, i menabò e le immagini dei libri scolastici, le correzioni di bozze: un affare serio, per la Liguori e per noi. Casa, lavoro, amicizia, politica, studio, amore era tutto mischiato tutto sempre, tutto con tutti e tutto da tenere insieme e portare a coerenza. C’era una infinita allegria eppure ci portavamo sempre appresso con noi stesse, ciascuna, un intero mondo. Molte tracce di questo portarsi appresso tutto mi sono rimaste poi per sempre e grazie al privilegio di fare un lavoro soprattutto di pensiero e di relazione ho potuto sottrarmi almeno un poco all’obbligo di mettere ordine.
Insomma avete sollecitato un bel ricordo e questo mi sembra un ottimo inizio. Potrei lasciarmi andare ad un confronto con quello che avviene oggi e.... su "com'è triste Venezia" ma preferisco ternermi stretto il ricordo e lasciarvi per ora così. Baci Susi.

Anonimo ha detto...

gentile Emanuela
dopo aver letto il suo intervento sul blog, abbiamo pensato di invitarla all'iniziativa Raccontare il lavoro che si terrà ad Ischia il 20 e 21 settembre prossimi, per avere un'occasione di confronto sul tema del lavoro. Se è interessata ci mandi i suoi recapiti all'indirizzo di posta della redazione (redazione@ilfilodiperle.it)

Anonimo ha detto...

Ormai ho 56 anni, ma ho ricominciato a vivere da un paio d'anni.
Da quando ho lasciato la mia bellissima Napoli per andare via e costruirmi una vita dignitosa.
Si, perchè diciamoci la verità, il lavoro a questo serve: a dare dignità a chi altrimenti non l'avrebbe.
E io lo so bene, perchè sono stata schiava.
Prima di mio marito che ha continuato ad ossessionarmi (nonostante fossimo divorziati da più di dieci anni) fino al giorno prima di partire e poi della mia datrice di lavoro.
Eravamo amiche e lei mi sfruttava. Mi ha offerto il lavoro appena mio marito mi ha cacciata di casa.
Ma
con tre figli da mantenere, pretendeva che dedicassi tutta la mia vita a lei: fare la spesa, aprire il pub, cucinare, servire, tenere i conti. Sapevo quando cominciavo, ma non sapevo quando finivo.
Lavoravo 14, 16 ore a meno di 30 euro al giorno.
Il mio era uno stipendio da fame e pure a nero (perchè figurati se a Napoli conoscono i diritti, sti farabutti) e le tasse da pagare e l'università ai miei figli e le sigarette e i vestiti, il cibo.
Non mi sentivo più una persona...ma un animale, di quelli che vivono sottoterra...senza identità, senza salute, senza malattia, senza tempo.
L'affetto sì però. Quello ce l'avevo e qualcuno ce l'ho ancora. Tutti mi volevano bene e qualcuno mi aiutava. A me bastava anche una parola di conforto, detta da un'amica vera però.
Ora non sto più a Napoli.
Vivo bene.
Finalmente posso mettere da parte qualche contributo per la pensione, me ne vado al cinema, dal parrucchiere, mi sento più libera.
Senza troppi problemi nella testa...
Io penso che non sia giusto che una persona se ne debba andare da Napoli per stare bene.
Perchè poi a dire il vero, tanto bene non si sta lontano da lei...
Chi nasce cà lo sa bene che significa...
Io non dico che questi problemi li devono risolvere i politici perchè : 1- anche i cittadini devono fare la loro parte; 2- se uno aspetta che le cose scendono da cielo la voglia di farsi vecchio.
Io lo vedo qua, qua le cose funzionano perchè la gente ragiona diversamente. Anche quella che viene da Napoli. E poi scusate se mi permetto di dire una cosa a quella ragazza: ma se tu stai a casa ma che ti credi di trovare?
Anch'io c'ho una figlia che studia e che vuole fare chissà che cosa, ma io ci dico sempre: "Tu a mammà se veramente vuoi diventare qualcuno devi girare". Non può pensare di trovare il piatto bello e pronto a tavola. Il mondo è nostro se ce lo pigliamo se no non è di nessuno...
Scusate se ho scritto troppo,
Nunzia